Poesia e terrorismo. Per Aldo Moro

Mario Luzidi Giacomo Trinci 

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Acciambellato in quella sconcia stiva è una poesia compresa nella raccolta Per il battesimo dei nostri frammenti, uscita nel 1985. Il mistero della realtà storica, col suo nocciolo di duro reale, si era aperta in modo vivido nelle raccolte degli anni sessanta e settanta e aveva creato quella meravigliosa stagione della maturità poetica di Mario Luzi in cui si assiste al presentarsi di un’acutizzata sensibilità verso il dramma collettivo dell’essere al mondo e al conseguente configurarsi di quell’incontro folgorante, infuocato, tra verticalità del processo mentale e orizzontalità del nuovo paesaggio umano e naturale, che veniva, adesso, in primo piano.

Dopo essere passato attraverso l’esperienza della struttura dialogica e teatrale degli anni di Nel magma (1963), l’incarnazione drammaturgia e teatrale di Ipazia (1972), Rosales (1983), e Istrio (1987), il cammino del poeta si fa strada dentro la fragile consistenza dell’umano e dello storico, dentro il vuoto misterioso che costituisce la faglia dove ci muoviamo ostinatamente, perdutamente interroganti e interrogati.

Smarrimento, angoscia, perdita di qualcosa di cui abbiamo una oscura coscienza, sono i movimenti dell’animo descritti in molte di queste poesie che compongono la raccolta del 1985. Questa poesia, in particolare, modula il dramma della storia e del potere, attraverso l’implacabile e implacato trauma della coscienza civile che si trova davanti al ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel 1978, anno terribile della violenza del terrorismo e delle Brigate Rosse.

Pure, davanti a questa catastrofe politica, a questo duro presentarsi della cronaca e della storia, si profila un processo linguistico, un uso della parola poetica che lo trapassa: quel “rugoso” pugno della realtà è così bene evidenziato dalla potente, dantesca espressione dell’”acciambellato”, a cui risponde alla fine della prima strofe “quell’abbiosciato/ sacco di già oscura carne”, che già l’incubo è, come dire, accolto dalla umile, ma non rassegnata, “conoscenza per ardore”.

La “sconcia stiva” non è solo il referente della bara-macchina, ma diventa la potente figura della storia che ci vive e che viviamo, il tormento che ostinatamente travaglia il nostro essere, sempre, nel mezzo del cammino, nella dantesca selva della perdita. Qui, abbiamo un sacco corpo “fuori da ogni possibile rispondenza”, rispetto al suo passato e rispetto ai disegni, alle strategie di una lungimiranza che sembra assente, adesso; oppure, come evidenzia la domanda finale, alla fine della seconda e ultima strofe, “ben dentro l’occhio” della sua vista lontana e lunga?

Le due strofe si articolano in una musica dolente e meditata, evidenziata com’è da quei cupi rintocchi di quei participi verbali della prima strofe che suonano la morte della repubblica italiana, nella rete di un discorso teso alla costruzione di una poesia corale ricca di pietà e di commossa pienezza. L’interrogazione finale di una verità irraggiungibile, forse, ha la densità amletica di un dubbio che non è destinato a sciogliersi una volta per tutte, ma a riproporre la forte irrequietezza del sentire umano.

Giacomo Trinci