Il fiume, la vita

Luzi Tarasco 2014di Elena Gori

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I versi di Dopo la curva fanno parte della raccolta di Mario Luzi Sotto specie umana, edita da Garzanti nel 1999. Protagonista indiscusso di questa lirica è il fiume, uno dei temi-cardine dell’intera opera del poeta fiorentino; basti pensare ad un titolo semanticamente evocativo come La barca, riferibile alla fase giovanile, o ai tanti corsi d’acqua che solcano le pagine luziane lasciandovi un’impronta incancellabile. In questa vasta casistica, il fiume diviene – è il caso dell’Arno – il “muto testimone o il protagonista di vicende legate a un territorio” (Marchi), o – come il più esotico Tigri – lo spettatore impotente degli scenari di guerra e di violenza nei quali quotidianamente resistono Le donne di Bagdad (vedi a questo proposito l’articolo Immagini di guerra e di vita).

Tuttavia la funzione cui il fiume assolve nei componimenti del poeta non è circoscrivibile esclusivamente a questi aspetti: oltre ad essere protagonista esterno che assiste alle vicende storiche e civili della contemporaneità, il fiume – in quanto parte ineludibile e primordiale di quel “discorso naturale” che è vero e proprio fil rouge della poetica di Luzi – incarna in molti suoi componimenti il significato stesso dell’esistere.

C’è sempre nella scrittura di Luzi la necessità di risalire alle origini, all’essenza dell’uomo, così come all’“anima del mondo”. Nessuna metafora gli si rivela allora più calzante di quella del fiume e dell’elemento primario, l’acqua, che scorrendone costituisce la linfa vitale, con un moto costante ed una forza incrollabile, che solo in prossimità della foce progressivamente si placa e viene meno. Analogamente la vita dell’uomo e, più in generale, di ogni altra creatura trascorre inarrestabile e si conserva, superando gli ostacoli in cui di volta in volta si imbatte, fino alla fine dei suoi giorni. Eppure, nel momento stesso in cui va a perdersi nella vertiginosa dimensione dell’infinito, la paura dell’ignoto è vinta da un sentimento di abbandono che trova nel ricongiungimento al tutto e in un eterno ritorno alle origini il proprio cristiano appagamento. È questo il grande messaggio che Luzi, giunto ormai sul finire del suo “viaggio terrestre”, affida ai lettori nella splendida Dopo la curva.

L’ansa del fiume – come la siepe dell’Infinito di Leopardi – è, per la sua stessa conformazione fisica, conditio sine qua non della poesia: entrambe costituiscono un impedimento per la vista che innesca, nel caso del recanatese, un processo dell’immaginazione culminante nella percezione dell’infinito e nella totale simbiosi con esso, nel nostro caso, uno smarrimento iniziale fino ad una rinnovata forma di vita. La curva è dunque uno spartiacque che stabilisce un prima ed un dopo: una volta superata, l’orizzonte che si aprirà davanti farà sì che niente rimanga uguale.

Ad accrescere questa sensazione è la personificazione del fiume, che, come un essere umano, prova “sorpresa”, oltrepassata l’ansa, per ciò che gli appare dinanzi, ovvero l’approssimarsi della “fine / del suo alveo” e l’inattesa foce. A rendere l’idea del percorso curvilineo, frastagliato e ostruito dall’ “aria della foce” che gli viene incontro, è la particolare disposizione grafica delle parole negli emistichi, che torna a farsi più lineare e normalizzata nei versi in cui l’“incipiente agonizzare” del fiume torna a respirare e a rinnovarsi proprio grazie all’acqua del mare. Il significato della metafora è palese: vi è un momento, lungo il corso della nostra esistenza, in cui si è costretti con spavento a prendere atto della fine che si avvicina. Ma proprio quando la vita sembra arrestarsi, perduto ormai ogni giovanile vigore, una nuova, diversa energia sembra soccorrerci.

Imbattendosi, verso dopo verso, nella sorpresa iniziale, nelle correnti contrarie, nell’ostinato avanzare del fiume nonostante il suo andamento agonizzante, il pensiero corre, anche solo per un attimo, al “vecchierel bianco, infermo” che nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia “cade” e “risorge […] senza posa”. Ma, mentre ad attendere lo strenuo personaggio leopardiano è un “abisso orrido, immenso”, un ben più pacificato esito accoglie il fiume di Dopo la curva. Fiume che Luzi dipinge ancor più umanizzato, nel momento in cui si volta indietro un’ultima volta per dire addio ai “chilometri di corso, / di pazienza, d’ira, / di estasi tra gli argini / nei campi, sotto i ponti”.

Siamo ormai dinanzi al definitivo congedo dalle passioni umane, ultimo atto prima di un whitmaniano abbandonarsi a Dio e alla natura (“Prendimi, mare aperto, annullami, / ma restituiscimi alle origini, / riportami alla roccia, alla sorgente…”), in cui l’eracliteo pànta rêi e la buona novella cristiana si confondano. E non ci colga la tentazione fuorviante di interpretare questo primordiale ricongiungimento con il ciclo naturale della vita come un processo razionalmente decifrabile; è piuttosto da intendere come un atto di fede, capace in quanto tale di far risplendere l’“ambiguo alone”, di affrontare l’“enigma” sul quale Luzi, durante la sua lunga vita di uomo e di poeta, non ha mai smesso di interrogarsi.

Elena Gori

Nell’illustrazione: Mario Luzi in un ritratto di Pietro Paolo Tarasco