Immagini di guerra e di vita

di Erica Dainelli

iraq_donne_pesiATTENZIONE
Leggi “Le donne di Bagdad” nei Testi!

La poesia Le donne di Bagdad è stata scritta da Mario Luzi nel 1992, alla fine della sanguinosa Guerra del Golfo. Il conflitto, iniziato con l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, vide contrapporsi le forze irachene ad una coalizione di stati membri dell’ONU, fra cui anche l’Italia. La coalizione, al cui vertice spiccavano gli Stati Uniti, attaccò a più riprese l’Iraq governato da Saddam Hussein, temendo che potesse estendere il suo potere non solo al Kuwait, ma anche all’Arabia Saudita.

Il motivo della contesa era l’accesso ad importanti risorse petrolifere che, per il loro immenso valore, avrebbe potuto condizionare in un modo o nell’altro l’economia mondiale.  Sulla scia di vecchi e nuovi risentimenti che già agitavano gli stati del Medio Oriente, si innestò una terribile guerra per il potere: le città furono distrutte, morirono molti civili, la gente comune raggiunse livelli di povertà insostenibili.

A differenza delle precedenti guerre, nel corso delle quali i mezzi tecnologici di comunicazione erano nulli o molto meno avanzati, la Guerra del Golfo fu seguita passo a passo dai media che trasmisero in tutto il mondo le immagini paurose e raccapriccianti delle zone del conflitto: ogni scena, dagli annunci di Saddam Hussein alle esplosioni delle bombe, fu filmata ed offerta alla sensibilità di un’opinione pubblica sempre più indignata dalle crudeltà che vedeva.

Mario Luzi era lì, di fronte al video, come tanti italiani che avevano seguito con il fiato sospeso le azioni delle truppe ONU che marciavano contro Saddam. Oltre a mostrare gli orrori della guerra, che altrimenti sarebbero rimasti nascosti, quasi censurati dalla lontananza geografica, lo schermo del televisore apriva un’autentica finestra sulla vita, anche la più umile, che lentamente ed ostinatamente tornava a muoversi, a rifiorire dopo la devastazione.

Quel giorno l’occhio della telecamera immortalò non già i soldati intenti all’ennesima azione, ma l’apparire silenzioso di alcune donne, pudicamente nascoste dai loro panni, mentre si spostavano lentamente verso il Tigri per attingere l’acqua. La distruzione degli impianti di depurazione e di ogni altra infrastruttura aveva reso il fiume «torbo», le acque «grevi e impastate di rovine», fitte di deiezioni provenienti da corpi umani che, nonostante tutto, continuavano a vivere il loro eterno eppur semplice, naturale ritmo vitale. Come centinaia, o migliaia di anni prima, il gesto di raccogliere l’acqua si ripeteva. Forse anche il fiume stesso avrebbe potuto ricordare, nel suo scorrere placido e millenario, le antiche scene di vita, come in un deja-vu.

Il poeta riflette sul tempo, sulla relatività degli spazi geografici, sulla condizione umana. Dopo la guerra, la vita ricomincia, leggera ma inesorabile, come la goccia che scava la roccia. Tutto torna lentamente come prima, la morte non ha importanza, la distruzione non ha importanza. Niente cambia davvero. Allo stesso modo, secoli e millenni nulla possono di fronte alla caparbia capacità dell’uomo di rimanere, nella sua più intima essenza, sempre uguale a sé stesso. «L’estrema deiezione della creatura umana non ha tempo […] la causa, neppure quella, muta». Come il corpo, così lo spirito. E deiezioni divengono anche, in questa poesia, gli uomini stessi, i piccoli, gli umili, coloro che, come le donne di Bagdad, rappresentano la più elementare e naturale attività di sopravvivenza, relegata, proprio per la sua “oscena” quotidianità, ai margini della società e dell’esistenza.

Lo schermo trasmette, quasi per sbaglio, obbedendo ad esigenze documentaristiche assieme pietose e spietate, un momento crudo di vita che schiude l’apparente mancanza di un senso. E il poeta-spettatore si interroga, preda di una rabbia e di un’indignazione che nascono umani e spontanei, risposta fisiologica all’immagine che il video rimanda. Perché la guerra, perché la morte, perché i dolorosi stravolgimenti della storia, se ogni cosa torna come prima? E perché allora, se tutto è inutile quanto inevitabile, nel cuore continua a nascere un viscerale ed intellettuale bisogno di «rivolta» per il dolore che l’umanità è costretta a sopportare?

Anche la guerra, antica come il primo peccato umano, o forse come la prima arcaica forma di società animale, millanta una contemporaneità ridicola, se guardata con gli occhi della storia. Presente e passato non hanno senso, come pure vicino e lontano, se in mezzo c’è l’occhio di una telecamera che rimanda le immagini ad un televisore. L’unica cosa che ha senso è proprio quell’indignazione profonda, forse anch’essa umanamente ed eternamente inevitabile, ma foriera di un cambiamento futuro.

La morte, ultimo personaggio che compare nella chiusa, governa su tutto, nella sua assoluta maestà. Ella ha il compito di determinare la vita, di “assicurarla” con la sua mancanza. Ma questo non basta. La volontà umana può sfidare l’inesorabile. E quello sdegno sincero che nasce nell’animo del poeta indica che forse è possibile, che non tutto torna e si ripete. I puntini di sospensione finali lasciano aperta ogni domanda. Lo spazio vuoto, al di là de la poesia, è tutto per il lettore, che può cedere alla morte o creare egli stesso il presupposti per un’eterna “redenzione”.

Erica Dainelli