Un Dio piccolo piccolo

di Antonietta Puri

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La poesia Non startene nascosto, tratta da Frasi e incisi di un canto salutare, la raccolta luziana del 1990, ci conduce ad affrontare e cercare di penetrare il mistero del rapporto uomo-Dio che si realizza e si fa concreto con l’incarnazione, con l’atto per cui, secondo l’espressione di Giovanni (1, 14), “…il Verbo si fece carne”, cioè “si fece uomo”, assumendo così tutt’intera la natura umana, in corpo effettivo ed anima razionale: libera e misteriosa disposizione dell’amore di Dio per la salvezza dell’uomo.

Nei versi bellissimi di Luzi leggiamo il sempiterno gioco tra il piccolo uomo che brama di vedere il volto di Dio per bearsi della sua gloria e nel contempo ne ha terrore e un Dio che, intrappolato nella sua infinità, non riesce a farsi visibile all’uomo, se non distruggendolo. Proprio a questo proposito, l’accenno al “roveto in fiamme” si riferisce all’episodio biblico (Esodo 3, 1- 6) in cui Dio apparve a Mosè sul monte Sinai “in una fiamma di fuoco, in mezzo ad un roveto”, che ardeva ma non si consumava; e quando Mosé volle avvicinarvisi per vedere meglio, il Signore gli intimò di non farlo, di togliere anzi i sandali dai piedi perché il luogo che calpestava era terra santa, in quanto chi gli stava parlando era Iddio. “Allora Mosé si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Iddio”.

Ed ecco che l’unico modo che “escogita” la mente onnisciente di Dio per manifestarsi all’uomo è quello di farsi piccolo piccolo incarnandosi nel grembo di una donna, celandosi in quel roveto ardente che “…fiammeggiando senza bruciare, generò la luce senza corrompersi” (S. Gregorio Nisseno). Poi, una volta fattosi uomo, nascondere ancora una volta la propria divinità con l’infamia della croce.

Non si sa chi dei due sia il più fragile, se questo essere umano che arde pur di poter percepire il suo Dio con i sensi, o quello stesso Iddio così onnipotente che non può mostrarsi all’uomo se non facendosi uomo egli stesso.

Viene spontaneo pensare all’ “Adoro te devote, latens Deitas…” di Tommaso d’Aquino che si rivolge a un Dio che deve farsi cibo, non solo per rendersi “visibile”, ma per calarsi in profondità nel corpo e nell’anima dell’uomo che, essendo fatto a immagine e somiglianza del suo creatore, lo mostra e lo nasconde nell’avvicendarsi continuo di presenza e assenza, di luce e di oscurità, di esaltazione e di disperazione, di vita e di morte: un avvicendarsi inesauribile in cui egli che non è, come pretenderebbe, l’unico protagonista della storia – che tuttavia si svolge in funzione sua e della sua trasformazione – è trascinato insieme al mondo.

Ancora una volta Mario Luzi tocca i vertici della sua poesia, per la purezza del canto in cui traspare più che mai una profondissima religiosità.

Antonietta Puri