Luzi e l’inferno della repubblica


di Marco Menicacci

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La poesia di Luzi Muore ignominiosamente la repubblica è famosa per almeno due ragioni: intanto perché si tratta di una veemente invettiva civile, quindi di un testo che tocca (e commuove, con la sua inossidabile attualità) tutti noi, cittadini della repubblica in questione. D’altra parte è una poesia che, almeno nella sua portata civile, appare di immediata comprensione e può quindi risultare quasi sorprendente per chi di Luzi conserva l’immagine, imprecisa ma diffusa, del poeta oscuro, difficile, aristocratico, “ermetico”… (chi è interessato a queste tematiche può leggere Buio sangue. Poesie civili di Mario Luzi scelte da Marco Marchi, Brescia, Fondazione Calzari Trebeschi-Edizioni L’Obliquo, 2008).

Muore ignominiosamente la repubblica dà anche il titolo all’intera sezione che la contiene, all’interno della raccolta del 1978 Al fuoco della controversia e, come ricorda Stefano Verdino nel “Meridiano” dedicato a Luzi, questi versi alludono alla difficile situazione italiana negli “anni di piombo”, un oscuro periodo di lotte e violenze che si estende dagli anni Settanta fino a inizio anni Ottanta.

Le parole di Luzi esprimono dolore e indignazione in un linguaggio sempre sorvegliato e non certo violento né volgare, tuttavia molto diretto. L’invettiva, ad esempio, si serve di vocaboli corposi e “infernali” (“bastardi”, “corvi”, “sciacalli”) che ricordano addirittura i versi di un poeta in genere ritenuto assai lontano da Luzi e che invece gli è sotto vari aspetti sorprendentemente affine: l’indimenticabile Pier Paolo Pasolini di Alla mia nazione (“e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti”…).

Rispetto a quella di Pasolini, certo, l’invettiva luziana può sembrare troppo vaga, indeterminata o – come dire – inoggettiva; una indignazione più estetica che etica, insomma, in cui vocaboli, immagini e pensieri, pur vigorosi e sinceri, rimangono ricercati e, in sostanza, genericamente astratti. Oppure, cambiando prospettiva, il discorso di Luzi apparirà semplicemente diverso, forse anche più tragico nella sua genericità, proprio perché assolutizzato e dunque più che mai diretto alle miserie della situazione umana.

La prima parte della poesia dipinge infatti un desolante scenario da bellum omnium contra omnes, la “guerra di tutti contro tutti” di cui parlava Hobbes; sempre orribilmente attuali suonano i versi in cui compare tutta una fauna umana che si pasce delle miserie di una nazione in crisi, pescando nel torbido senza ritegno.

Poi arriva, teologica e severa, la sigla luziana, che ripropone un tema centrale, attivo e coerente lungo tutto l’arco della sua produzione: il senso di trepido rispetto nei confronti della dimensione ultraterrena, quella dimensione che per l’uomo comincia con la morte. Destino comune a vittime e carnefici, la morte è il mistero che ammutolisce, il dolore che segna la irrimediabile finitezza della nostra condizione esistenziale. Allo stesso tempo però ci lascia intravedere anche la speranza – per il cristiano Luzi la certezza – che la morte (almeno la morte, se non la vita!) non sia “ignominia”, ma il momento decisivo di tutta l’esistenza terrena: il passaggio tra terrestre e celeste, l’istante della decisione ultima nel contatto fra il transitorio e l’eterno. L’essere mortali, questo essenziale dettaglio che troppo spesso nel fervore animalesco della vita va dimenticato, resta paradossalmente garanzia di umanità di fronte all’ignominia di cui gli uomini, da vivi, sono capaci. Anche se tutto nel mondo può essere ignominia e oscurità, al di là della dimensione umana balena per Luzi un sogno di giustizia ed equità: il vero, ultimo “tribunale” a cui nessuno può sfuggire.

La clausola, anche se Luzi forse non sarebbe completamente d’accordo, ricorda quella di un altro straordinario, anche se assai diverso, poeta: il Montale esistenziale e (in questo caso) non civile ma privatissimo di un celebre componimento delle Occasioni:

Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l’oscura primavera
di Sottoripa.

Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall’aperto,
strazia com’unghia i vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia
da te.
E l’inferno è certo.

Marco Menicacci