Fra desiderio e tormento. “Il termine”

Mario Luzidi Marco Menicacci

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In una delle sue poesie più memorabili, Limiti, Jorge Luis Borges scriveva che nella vita ci sarà per tutto – per ogni nostro atto o esperienza – una ultima volta: l’ultima volta che si passa per una strada, che si incontra qualcuno, che si prende in mano un libro dallo scaffale, che si chiude una porta. E così anche per il poeta Mario Luzi c’è stata un’ultima volta in cui ha scritto una poesia; l’ultima volta in cui la sua forza creativa si è concentrata fino ad arrivare a quel momento incandescente e inspiegabile in cui dalla mente di un uomo scaturiscono l’idea e le parole che formeranno una poesia.

Proprio Il termine è, se non l’ultimo in assoluto, uno degli ultimi componimenti che Luzi ha scritto prima di spegnersi e che ora si possono leggere nel volume postumo intitolato Lasciami, non trattenermi, uscito da Garzanti nel 2009 per le cure di Stefano Verdino. Come se l’autore avesse presentito che il suo “viaggio terrestre” sarebbe presto giunto alla fine, questi versi hanno la forma di un testamento esistenziale ed artistico, ma a ben vedere racchiudono anche una summa dei caratteri più significativi della poetica luziana.

Subito colpisce la scelta di un’ambientazione che chiaramente rievoca il Purgatorio dantesco: la montagna, la “scoscesa serpentina” da risalire con fatica, puntando verso la luce, la cima “celestiale” che schiude la beatitudine… E davvero il Purgatorio sembra la cantica più intimamente confacentesi e più psicologicamente vicina alla sensibilità luziana, perché l’uomo vi si trova in una condizione esistenziale in cui certo la fiducia (la fides) è fuori discussione, la prospettiva è radiosa, eppure l’angoscia e la trepidazione continuano a mordere. Nel chiarore purgatoriale filtra la luce emanata dall’Empireo e s’impasta con la sostanza di anime non ancora monde dai peccati, all’interno delle quali si scontrano affetti contrastanti: “desiderio” e “tormento” – come scrive qui Luzi – e ancora pena, dubbio e timorosa speranza.

Fin dal titolo, a imporsi all’attenzione è l’ambiguità della parola “termine”: nel senso di fine, senz’altro, ma anche di traguardo, così come la “vetta” è in un certo senso la “fine” della montagna, che si rarefà perdendosi nel cielo, e allo stesso tempo il punto di arrivo (il termine) per lo scalatore. I primi versi sono animati dal dimesso e confidenziale lavorio delle rime – in genere semplici e piane – che imbastiscono una trama di rimandi fonici, ridondanze di suono palesi o riposte: spesso sfuggono all’occhio, ma incidono la propria presenza nell’udito e nella mente del lettore.

Al mezzo della poesia – tra settimo e ottavo verso – culmina l’immagine della purgatoriale amalgama di “desiderio” e “tormento”, mentre l’essenza del cristianesimo agonico di Luzi si trova riassunta in una domanda-affermazione pensosa, appena formulata: “ma quiete vera ci sarebbe stata”. Da notare come, semplicemente abolendo il segno grafico del punto interrogativo, il tormento del dubbio emerga ancor più inquietante e perentorio, e trasmetta il proprio impulso d’inquietudine anche ai versi successivi: “lì avrebbe la sua impresa avuto il luminoso assolvimento / da se stessa nella trasparente spera / o nasceva una nuova impossibile scalata”…

Luzi insomma non è un poeta che canta la pace gioiosa di una salvezza pienamente compresa, ma vive il mistero della fede come traguardo che, nel tempo umano, non si lascia mai conquistare definitivamente: l’uomo non può fare altro che tendervi con perenne senso di agonia (nel significato etimologico di “lotta” che a questo termine ha reso il filosofo e teologo spagnolo Miguel de Unamuno).

L’ultimo verso (“questo temeva, questo desiderava”) racchiude, ripete ed esplicita i termini della questione: timore e desiderio sono i due affetti più specificamente umani, il motore che tutti muove e tormenta, in un perpetuo alternarsi di delizia ed esaltazione. Così, in questo suo estremo canto, Luzi si conferma uno dei più alti interpreti della trepidante e irrimediabile umanità dell’uomo, di questa creatura fragile e confusa, densa di contrasti e faticosamente protesa verso una salvezza che non conosce pace.

Marco Menicacci